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Doc Passito di Pantelleria – Bukkuram – Marco de Bartoli 2006

Davanti a quel bicchiere miracolato di luci e profumi,  vorresti essere schiacciato dall’azzurro accecante, dentro quel caldo che fa sudare anche la terra. Vorresti essere a Pantelleria, isola di isole.

I vini dolci sono tipacci subdoli, arrivano spesso alla fine, ti prendono che sei stanco, ti confondono, così rotondi, zuccherosi, luccicanti, ruffiani. Profumano sempre di frutti festosi e di balocchi colorati. E tu sei contento o, nel peggiore dei casi, ti accontenti.

Poi incontri vini come il Bukkuram di De Bartoli e intuisci il significato di bellezza. Territoriale come pochi, questa bottiglia è spremuta di Zibibbo al sole salato, è frutto di intelligenza umana, di sapienza.

Immaginate il colore più prezioso e denso che possiate desiderare in un bicchiere: quello è il colore del Bukkuram 06. Un sospiro, un fiato per ascoltare profumi di mediterraneo dolciastro, di pietre roventi, di piante grasse, fiori al miele, Arrak in purezza. Poi il sale, che punge più di qualunque nota alcolica, che scalda le narici, le insabbia, le avverte.

Il sorso è lungo come una giornata, è una densa, estrema sintesi delle suggestioni che occhi e naso hanno dipinto nella tua testa, è una ricordanza, è un’appartenenza. Roccia e miele, piccano sulla lingua come lische le frescure del limone giallo e dello zenzero, ad inondare di piacere ogni goccia di questo bicchiere.

Un vino dolce definitivo, che è ancora una semplice promessa di quello che, tra un lustro almeno, potrà mantenere.

Voto_9.4

Igt Sicilia – Serragghia Rosso – Bini 2006

Sono fortunato, ne sono consapevole. Sono serate come quella trascorsa al Caffè della Crepa che rafforzano questa consapevolezza: una bella tavola, un buon amico e la scelta della bottiglia giusta. Si mangia padano, di fiume e di terra, anguille e luccio, anatre e cotechini, marubini in brodo e maltagliati al persico. Serve la bottiglia folle, insolita, trasversale, buonissima: Serragghia Rosso di Gabrio Bini, 2006. La richiesta crea un pacato scompiglio, i fratelli Malinverno (Dio li benedica!) si sguardano, parlottano, cercano di spiegarci che “trattasi di un vino diverso, ecco …”, ma noi, enofighettistrippatiestremisti la sappiamo lunghissima, loro si convincono, la bottiglia arriva in tavola.

Trama corallica, più scura all’interno e per questo ancora più corallica. Torbido, sensuale nel suo vestito scollato di rosso susina. Naso impressionante. Una spremuta, un succo di Pantelleria, di mediterraneo, con quei vitigni che non si capisce bene, carignano (si, ma quale?), pignatello, e poi chissà cos’altro ancora. Profumi accecanti, frutta fresca tagliata a pezzi, sangria, fiori salati, capperi e origano, vorresti tuffare il naso dentro il vetro, vorresti respirarlo quel vino.

Poi lo bevi. Ed è una saetta di frutta e spilli, un’ondata di maestrale incazzato, un concentrato di meraviglia, un ricordo lontanissimo del tannino, una testimonianza di candido disordine. Saranno le anfore, sarà Bini, sarà Pantelleria, non ne ho la minima idea, ma le parole, tra questa improbabile coppia di amici e commensali, sono sparite, regalando al silenzio ed ai bicchieri colmi, il miglior commento possibile.

La bottiglia è finita, i fratelli Malinverno ci sguardano sorridendo, il ricordo della bottiglia non si cancella. Magnifico nella sua spudorata unicità.

Voto_9.2

Igt Sicilia – Sedàra – Donnafugata 2006

Chissà perchè mi lascio influenzare così tanto dalla bellezza dell’etichetta. In realtà dei vini e delle persone a me ha sempre interessato la sostanza, mai l’abito. Eppure è così, mi accorgo, con il passare del tempo e degli assaggi, che do sempre qualche chance in più a chi si agghinda bene, che sia l’etichetta o le parole o il progetto o la bottiglia. Non so, ma è un difetto che devo correggere, la centralità del bicchiere, del vino, oggi mi deve interessare di più, e mi ci devo concentrare.
Perchè bere Donnafugata a volte ti fa confondere. Non capisci se è il vino che è buono, oppure è l’insieme di quelle bottiglie sempre bellissime che trionfano inesorabilmente sulla tavola, è quel nome, quell’idea di Maria Carolina che scappa da Napoli, quella ricerca della bellezza colta, identitaria, fiera … insomma sicula.
Perchè in fondo, questo blend di Nero d’Avola prevalente, che ha il cognome del don Calogero de “I Gattopardi”, non è strabiliante. Eppure affascina. Il bicchiere bevuto ha buoni anni sulle spalle per la tipologia “fresca” che dovrebbe rappresentare. Acciaio e cemento, il legno non c’è.
Il colore è scuro ma rubicondo, non brillantissimo, un poco cupo. Misteriosi gli archi sul vetro, lenti e veloci, larghi e sottilissimi. Colore interessate, perchè il cuore, il centro, in realtà illumina. Bello l’effetto.
Il naso è tanta frutta macerata nell’alcol buongusto, sotto uno spirito sopito. E poi minerale, un poco di ruggine. Naso povero in complessità, ma bello vivo e potente.
In bocca è ormai il caldo a farla da padrone, con umili tannini che accompagnano sommessamente il sorso. Il fruttone rosso torna lungo e vaporoso, ma il finale è troppo ammaricato, un minerale spento, non spigoloso.
Meglio l’etichetta del bicchiere.
Voto_6.4

Maqué Rosè 09 – Porta del Vento 2009

Maquè. Gran nome, da pronunciare a voce alta. Provateci. E provate anche a caricarci sopra un accento siciliano, bello marcato, netto, schietto. Ma qu è? Ma cos’è? Semplice: Perricone. Vitignone superautoctono e supertannico, in questa bottiglia vinificato “in  bianco” dice Marco Sferlazzo, il produttore di Camporeale (PA) che non conosce solforosa. E siccome è vinificato “in bianco”, giustamente … è rosone! O meglio, un porpora scarico, che qui la buccia è talmente ricca che cede già molto solo a sfiorare l’acino per raccoglierlo.
Il colore è bello strano. Lo ridico, porpora stanco, rosa scioccato … boh? Sta di fatto che la luce è tanta e riflettente, colore acchiappante. Si muove svelto ma compatto nel vetro, rigandolo di coralli. Chiamarlo rosè è riduttivo, comunque.
E poi c’è il naso, che è un piccolo mondo parallelo. Il viaggio nell’isola dei profumi intensi, del mare scuro e del vento. C’è forza nel bicchiere, frutta intensa, non comune e non tutto è pulitissimo, ma molto, molto affascinante. Lampone e mandorla su tutto, e poi quella nota bellissima del fico d’india non pronto, con tutta la sua pungenza (in tutti i sensi). Il naso è davvero di raro interesse, perchè se ci si sofferma un attimo, ma anche due, non si direbbe mai di trovarsi davanti ad un vino che sulle bucce è stato un attimo. Pare impossibile.
In bocca la freschezza è esagerata, accompagna polpa e tannino (che c’è, eccome) per tutto il sorso. La struttura è composta, di un’eleganza originale, tutta personale. Bevibilità da applausi a scena aperta. Davvero un bel vino.

Voto_8.0

DOC Etna Rosso – O’scuru o’scuru – Al Cantara 2006

Non devo bere i vini di Al Cantara. Devo solo guardarli, osservarli, ammirarne i dettagli colorati, le visioni. Le etichette di Cartura mi commuovono.
La malinconia non è mai una sensazione da provarsi all’atto dello stappo, ma già so che quel momento segna l’abbandono, il distacco. E così non mi godo il bicchiere con serenità, mi dispiaccio e questo sentimento poi, se dentro quel bicchiere c’è il vulcanico Nerello, aumenta in modo preoccupante.
Perchè questo, lo dico subito, è davvero un bel bicchiere, difficile, ma bello. Tanto mascalese e poco cappuccio per questo che è, senza  dubbio, un vino siculo di razza.
Il colore è di un rosso cupo, chiuso, denso. Non è splendente, ma affascina eccome. Archi di consistenza e spessore, sfumature metalliche in trasparenza.
Il naso è da “programma di allenamento intensivo”. Forte, imponente, energico, ma finissimo nei modi. Quasi elegante, se non fosse per questa intensità travolgente. Il frutto è rosso, maturo, quasi polposo, ma le note più interessanti sono le speziature forti, le polveri profumatissime, di caffè, di macinature tostate. Il senso di asciutto e di vulcanico è davvero chiaro in questo bicchiere.
In bocca fa il duro. Va dritto, una lama su per la lingua, si appoggia, senza far danni, con tannini vivissimi, aggrappanti. Una prova di forza in piena regola, appena sotto controllo. Non si slitta  mai fuori strada, non è un vino morbido di certo, ma questa spigolosità netta ma a suo modo garbata, mi piace da matti. Fantastica la persistenza di qualità davvero superiore, e quel retronasale polveroso, quasi fosse cenere. Se cercate coerenza tra territorio e prodotto, accomodatevi.


Voto_8.5 (sarebbe un 9.0 se solo si potesse sciogliere l’etichetta dentro la bottiglia …)

IGT Sicilia – Cappiddazzu paga tuttu – Al Cantara 2006

Bellissima la bottiglia, bellissima l’etichetta (Cartura, progetto affascinante del Maestro Alfredo Guglielmino), bellissimo il nome (commedia scritta a quattro mani da Martoglio e Pirandello).

Gran bell’esempio di Cabernet Sauvignon in purezza, di francese è rimasto davvero solo il ricordo: siculo al 100% (uva dell’ovest, anzi del west, parliamo di marsala, mazzara, parliamo di colline esposte al sole come poche nel mediterraneo), un vino di una schiettezza complicata (da buon siculo …). Magari vorrebbe essere moderatamente gentile e novellamente elegante … ma, per fortuna, non ci riesce!
Nel bicchiere si presenta di un rosso mattonato mica male, ma più cupo se possibile, con unghia quasi melanzana. Colore che ti spaventa e ti affascina. Bella consistenza, attaccature alte, medie, basse, insomma … il bicchiere viene assalito da archi a volte regolari, a volte rapidi, a volte disordinati, a volte immobili, a volte …
Il naso è molto, ma molto più complesso di quanto ci si potrebbe aspettare. Frutti rossissimi maturi ma non troppo (amarene? ciliege?), solide dolcezze legnose inaspettate nella forza, vaniglia tanta. Pausa. Adesso cacao amaro (dopo quella dolcezza?), spezie tantissime, sopratutto un pepe verde che non avevo mai riconosciuto così netto … insomma un’esplosione!
Il sorso rotola in morbidezze che oscurano le freschezze, un tannino che sembra assurdamente dimenticato chissà dove ma che poi, quasi per incanto, si presenta nel finale, robusto, forte, solido.
Il vino non può dirsi certo equilibrato, ma è una bevuta che mi ha emozionato e tanto, un bellissimo “laboratorio” d’analisi. E poi … che etichetta ragazzi, che etichetta!

Voto_7.7