Semplice è la vita

Tamuli - Macomer

C’è il sole, e poi le nuvole. Giganti e bianche. Galleggiano, in questo cielo che sembra più vicino, un cielo d’Isola.

La pioggia intensa porta via quella sensazione, quella specie di speranza che va trasformandosi in sottile, meravigliosa, malinconica certezza: vivrò sempre sotto il sole, magari mi verranno i solchi sulla faccia chè gli alberi sono bassi e piegati e l’ombra me la concederanno solo le nuvole. Giganti e bianche.

Sorrido.

Solo pochi mesi fa queste divagazioni, questi pensieri sconci, m’avrebbero scosso dal tepore artificioso e padano del mio letto. Paciosamente avrei “girato gallone” e mi sarei riaddormentato, soddisfatto comunque di essermi confuso tra il ricordo ed il sogno di quel cielo e di quella pioggia. Un inganno consapevole.

Invece sono, siamo qui. È passata una stagione e la vita è cambiata.

La vita è semplice.

Cambiare, scegliere, mettersi addosso la voglia di ripartire, di ricominciare. C’è una bellezza facile e potente nel cambiamento, nel re-inizio. Un rilancio, una curva, il sapere dell’esistenza di una strada intuendone soltanto il rettilineo.

C’è tanta bellezza nel cambiamento, c’è bellezza nell’inganno che si svela in realtà, c’è la bellezza delle nuove bruttezze, c’è la bellezza della fatica e delle caviglie gonfie, c’è la bellezza di quello che non conosci e che ti meraviglia, c’è la bellezza di vedere ciò che era come non è più.

Ed è affascinante stupirsi davanti alle reminiscenze spontanee, a parole che hai letto, che hai da sempre sognato di poter scrivere tu ma senza saperne per davvero il motivo: “siediti al sole, abdica e sii re di te stesso” leggevo, annotavo, riscrivevo questo verso di Pessoa con una misurata ossessione, mi piaceva il senso, la cadenza italiota della traduzione, la ritmica dell’inquietudine, la scelta classicistica del vocabolario.

Oggi, dentro a questo cielo, ne ho capito anche il significato, che c’è il sole, e poi le nuvole. Giganti e bianche.

Dopo il mare, viene il porto

Fino a che non ci si impegna

c’è esitazione, possibilità di tornare indietro, e sempre inefficacia.

Riguardo ad ogni atto di iniziativa e creazione,

c’è solo una verità elementare,

ignorare la quale

uccide innumerevoli idee

e splendidi piani.

Nel momento in cui

ci si compromette definitivamente

anche la provvidenza si muove.

Ogni sorta di cose intervengono in aiuto,

cose che altrimenti non sarebbero mai accadute.

Una corrente di eventi ha inizio dalla decisione,

facendo sorgere a nostro favore

ogni tipo di incidenti e di imprevisti,

di incontri e di assistenza materiale,

che nessuno avrebbe sognato potessero avvenire in questo modo.

Qualsiasi cosa tu possa fare,

o sognare di poter fare,

incominciala.

Il coraggio ha in sé il genio,

il potere e la magia.

Inizia ora!

John Anster dal Faust di Goethe

 

Anster non era esattamente un esempio di rettitudine e armonica felicità: era un emarginato, un tossicodipendente, un fottuto genio. Tradusse il Faust, e lo fece in modo incandescente, meraviglioso: tutto quello che non era stato, tutta l’iniziativa e la forza di cui non era stato capace, la gettò in quelle righe, così moderne, così contemporanee, così, ancora una volta, incomprese dai suoi stessi amici.

Il coraggio ha in sé il genio. Il coraggio di fare le scelte.

È cosi, è inevitabile: il viaggio sul bastimento può essere stato cauto o avventuroso, veloce come una notte o lungo come l’impazienza, ma dopo il mare, viene sempre il porto. Se non fosse così, non lo si dovrebbe chiamare viaggio, ma vita galleggiante, a rischio perenne di naufragio.

Da isolano dell’Isola, ho sempre tenuto a mente l’importanza del porto, la sua perfetta presenza, la sua immutevole distanza e la mia scarsa autonomia.

Ora è venuto il momento di rientrare in porto, di bolina scarsa, beccheggiando, ma comunque serenamente. Torno sull’Isola dove sono nato, ci ritorno carico di esperienza, di amicizie continentali, di confronti colorati e panorami diversi.

Torno a casa grazie a tre fondamentali atti di coraggio. Il primo, il più importante, è che gli occhi verdi più belli e continentali che abbia mai avuto la fortuna di vedere mi seguiranno: senza questa presenza coraggiosa, senza l’Amore, nulla sarebbe stato possibile. Il secondo atto è legato alla fiducia, perché si, anche oggi c’è stato e c’è chi crede ancora nelle persone, nel loro valore più nascosto e umano, c’è ancora chi crede che la persona venga prima di altri elementi. Senza il coraggio di quel contadino autentico e sincero che è Alessandro e senza la sua famiglia, il mio porto non lo avrei potuto rivedere. Il terzo atto di coraggio è il mio, ed è quello che rivolgo verso la mia terra, la mia Isola, la mia Sardegna: perché credo fortemente e follemente nella possibilità di un’Isola più forte, più vera, più sarda, un’Isola di popolo e non solo di genti; voglio investire la mia vita nell’idea di un turismo più consapevole, dove il mare è cornice e la terra, con i suoi elementi, la tela da ammirare, dove le persone, le storie, le idee intrecciate siano ingredienti di ospitalità sana, semplice, splendidamente sarda.

Non posso ringraziare nessuno, ma voglio, anzi devo ringraziare tutti.

Grazie.

A kent’annos!

Babele, la condanna perfetta

Il Signore disse: “Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro possibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”. (Gen. 11, 1-9)

Dopo una lunga riflessione sono (quasi) certo di non essere in preda al delirio mistico.

Sono inscatolato dentro una delle macchine volanti a basso costo e stretto spazio, sto leggendo le parole dell’attuale assessore al Turismo della Regione Sicilia. Quest’uomo, che considero inestimabile, oltre a raccontare le solite, ottime cose, chiude citando la Torre di Babele, simbolo del momento italico. “Babele è una condanna” dice, altro che simbolo del multilinguismo.

Rimango inchiodato alla strettissima poltrona volante. Il mio vicino sonnecchia e sbalza. Io sbalzo e basta. “Babele è una condanna” rimbomba come i motori, fischia resistente come un flap aperto. Nessuna corpulenta e turchesissima hostess che cerca di vendermi improbabili gratta e vinci riesce a scrollarmi dalla testa questa idea: siamo condannati a non capirci.

Una volta al suolo, cerco bytes biblici e trovo conferma: Dio o chi per lui (cit.) ci ha condannato all’incomprensione reciproca.

Adesso mi spiego perchè sono mesi, forse anni, che non ci capisco più nulla: parliamo la stessa lingua, probabilmente vogliamo tutti le stesse cose, ma non sappiamo come dircelo, non siamo capaci di comprendere, siamo confusi. Naturali, convenzionali, puzze e profumi, complessità e semplicità, cambiamenti e caste, grilli e stelle. Tutto si mischia, tutto ha un senso, ma nessuno può capirlo.

Che invenzione questa Babele, che condanna perfetta.

Le parole sono appese, come stracci

Per il sangue che hai perso, il vino pareggia – E. De Luca, Il giorno prima della felicità

Scrivere è un’esigenza, un’urgenza. Lo fai perché senti che lo devi fare. Chi dice “lo faccio solo per me stesso”, mente: non solo a se stesso.

Chiaro, guardare in faccia le proprie parole ha potere lenitivo, curativo, positivo. Comunque. È uno strappo, è uno scatto bruciante, è un freno di emergenza che sferraglia, è una voglia di raccontare eppure di tacere. Scrivere è un debito, un dovere con te stesso. Vuoi saldare, ma tardi, ripieghi, dilazioni. E il tempo diventa scusa, rimandare diventa abitudine. E poi non paghi più e gli interessi si sono fatti grossi. E c’è la Crisi.

Se scrivi lo fai per dire, per parlare, per provocare nell’altro un pensiero, una censura, una scintilla. Almeno una smorfia.

Un amico che disegnava appunti golosi, mi diceva “fermati finché sei in tempo, oppure non fermarti più”. Credo di essere in ritardo, in clamoroso ritardo per potermi fermare, l’istinto continua a battere i tasti, vocale e consonante, parole e assonanze, figure contorte o semplici, che aspettano solo di essere eseguite, che appaiono d’improvviso al posto del foglio bianco, dopo il cursore, quello che lampeggia, ansimante, impaziente.

Poi pensi alla fortuna che hai, che qualche volta riesci a raccontare le fatiche di chi fa il vino, magari fai interessare altre 10 gole ai tuoi stessi sorsi, e che magari la pensano come te, e sono felici, e sei felice.

Ma spesso, ormai troppo spesso, i pensieri si sporcano, le bozze si infittiscono, i racconti si interrompono nel mezzo, non finisci mai semplicemente per dover ricominciare. Sempre.

E le parole restano lassù, appese. Come stracci.

credits morillo

Dop Sangiovese di Romagna Sup. – Castrum Castrocari – Marta Valpiani 2009 – parte seconda

Come da categoriche istruzioni ricevute, eccomi a stappare la seconda boccia del Sangiovese Superiore Castrum Castrocari, il vino di Elisa Mazzavillani.

Bell’idea quella di Elisa: l’assaggio distante appena sei mesi rivela l’evoluzione a breve della bottiglia, fattore che ho sperimentato rare e casuali volte.

Il bicchiere non è cambiato nel colore, non si è ispessito, piuttosto è nei profumi che i mesi hanno agito con tenacia: più volume, più ampiezza di tutte le componenti fruttose, una educatissima trasparenza di tabacco fine, fresco, un’evoluzione gentilissima e ancora bellamente futuribile insomma.

Le differenze più marcate interessano il sorso, che si fa molto più composto e centrato, fresco e pieno, goloso eppure semplicemente bevibile. Quella nota amara così stonata appena sei mesi fa, si è fatta bella, è diventata chiusura elegante, quasi personale. Il caldo si è placato, l’equilibrio ha coperto le eccessive morbidezze “estive”, il sorso scorre con più efficacia, più stile, più soddisfazione.

Il tempo ha aiutato questo Sangiovese a diventare bello e, con molte probabilità, lo aiuterà ancora.