Le semplici cose

Perché semplice è l’amore e le semplici cose se le divora il tempo.

Esistono momenti spesso distanti tra loro, che si assomigliano tanto, tantissimo. Sono quei momenti in cui pare nitido il giusto, chiaro l’errore, brillante il bianco e opaco il nero. Insomma, quei momenti di lucida razionalità, d’improvvisa e periodica giustezza che ti portano a comprendere meglio. Poi normalmente li dimentichi, quei momenti. Più raramente li cogli, li afferri, quei momenti. Uno di quei momenti, quelli che si colgono, si è composto, quasi per magica stanchezza, mentre ascoltavo Vinicio cantare ancora una volta la poesia di Gomez, divenuta milonga rebetika, corda e stringa che fanno vibrare tutto, ma davvero tutto.

Erano giorni di riflessioni svelte, le peggiori: il tempo per scrivere su questo diario si è esaurito, pensavo, ho altro e più denso luogo dove sfogare i miei racconti e poi il lavoro, quello vero, merita ancora più attenzione del solito perché nuove vecchie cose si stanno affacciando, incerte ma presenti.

Ma poi, ascolti Vinicio che s’offre, come solo lui sa soffrire, con parole soffiate: uno si separa, insensibilmente, dalle piccole cose. E l’istantanea è scattata, l’otturatore è otturato, quello che pensavi, con fervida convinzione, già scompare.

Allora è deciso, se pur diversamente, se pur inconstantemente, di continuare a popolare di macchie le pagine bianche, anche perché uno torna sempre, al suo vecchio posto. Come le semplici cose.

Terroirvino. Punto.

C’è sempre un’occasione, una festa che aspetti, che sai che comunque vada, tu sarai felice. Per me quel momento è Terroirvino, per ragioni talmente semplici da essere inequivocabilmente splendide: gli amici ed il vino.

Quest’anno poi potrò condividere con un manipolo di incoscienti e coraggiosi qualche idea che mi sono fatto su un vitigno che amo perdutamente, il Vermentino. Cinque storie, cinque bottiglie, cinque interpretazioni, tutte, va senza dire, dell’Isola dove son nato.

Non posso, non voglio desiderare altro. Almeno fino a lunedì.

Dop Sangiovese di Romagna Sup. – Castrum Castrocari – Marta Valpiani 2009

Elisa Mazzavillani scrive in maniera risoluta e schietta, come piace a me. La prima volta del suo Superiore vuole condividerla con la rete, con alcuni assaggiatori seriali, virali. Un approccio più che corretto: campione di 2 bottiglie, una sola regola, la prima si assaggia entro maggio, l’altra entro la fine di quest’anno lungo e tremante.

Il Sangiovese di Elisa (e di Marta, la madre, si tratta di una cantina di sole donne) fa una lunga macerazione a freddo, ribolle nell’acciaio, poi riposa tra legni non nuovi per dei mesi. Il colore è di rubiconda trasparenza ma scuro al cuore. I segni della gioventù si fanno brillanti, lucenti e bordati di scarlatto.

Il naso è ancora una promessa, in termini quantitativi, di quello che sarà: un frutto rosso, anche scuro, forse incupito, poi tante viole odorose, umide e un sottile pizzicore pepato, ma di quello buono, chiaro. In bocca sorprende il tannino già piuttosto fine anche se ancora nella sua pienezza verdeggiante, l’acidità che sostiene appena sul filo un sorso succoso, caldo, completo. Ancora poco integrata invece la nota minerale, viva e molto interessante, ma che tende ad un apostrofo amarognolo fuori dal coro. Normalmente non mi fisso sulle temperature di servizio, ma è stato divertente tuffare la bottiglia nell’acqua fredda e godere di alcuni bicchieri rinfrescati, e allora il timone ha puntato dritto alla bevibilità più godereccia.

Un bicchiere piacevole che incuriosisce, e tanto, soprattutto in prospettiva breve, dove si assisterà ad una crescita quantitativa dei profumi, oppure ad una versione ancora più elegante nel sorso, coccolato da fruttosità più polpose. Chissà … Il vino è cosa viva, è un bambino che ha carattere e la strada da prendere, quella decisiva, se la sceglie da solo.

Doc Passito di Pantelleria – Bukkuram – Marco de Bartoli 2006

Davanti a quel bicchiere miracolato di luci e profumi,  vorresti essere schiacciato dall’azzurro accecante, dentro quel caldo che fa sudare anche la terra. Vorresti essere a Pantelleria, isola di isole.

I vini dolci sono tipacci subdoli, arrivano spesso alla fine, ti prendono che sei stanco, ti confondono, così rotondi, zuccherosi, luccicanti, ruffiani. Profumano sempre di frutti festosi e di balocchi colorati. E tu sei contento o, nel peggiore dei casi, ti accontenti.

Poi incontri vini come il Bukkuram di De Bartoli e intuisci il significato di bellezza. Territoriale come pochi, questa bottiglia è spremuta di Zibibbo al sole salato, è frutto di intelligenza umana, di sapienza.

Immaginate il colore più prezioso e denso che possiate desiderare in un bicchiere: quello è il colore del Bukkuram 06. Un sospiro, un fiato per ascoltare profumi di mediterraneo dolciastro, di pietre roventi, di piante grasse, fiori al miele, Arrak in purezza. Poi il sale, che punge più di qualunque nota alcolica, che scalda le narici, le insabbia, le avverte.

Il sorso è lungo come una giornata, è una densa, estrema sintesi delle suggestioni che occhi e naso hanno dipinto nella tua testa, è una ricordanza, è un’appartenenza. Roccia e miele, piccano sulla lingua come lische le frescure del limone giallo e dello zenzero, ad inondare di piacere ogni goccia di questo bicchiere.

Un vino dolce definitivo, che è ancora una semplice promessa di quello che, tra un lustro almeno, potrà mantenere.

Voto_9.4

Discorsi concreti

Quando ho cominciato a bere, non lo ricordo con esattezza. Quando ho cominciato a capirci qualcosa di vino nemmeno, anche se ho il clamoroso sospetto che quel momento non arriverà mai. Quello che invece ho stampato molto bene nella memoria analogica e digitale è il momento esatto in cui ho realizzato cosa vuol dire avere passione per il proprio lavoro, la propria terra, il proprio vino. Quando Luca e Alessandro si parlavano, quando lo zolfo ed il rame diventavano quantità dialettiche più che fisiche, quando il Veneto e la Sardegna cercavano testardamente di incontrarsi facendo leva sulle differenze, quando ho visto una persona chiedere e l’altra ascoltare, pensare e rispondere. Quel momento non lo dimentico, quel momento è concreto.

Doc Carignano del Sulcis Superiore “Terre Brune” – Santadi 2002

Il Carignano dello splendido Sulcis è un vitigno terribilmente affascinante, come la terra che lo accoglie. Sembra soffrire il bollore di quella terraccia rossa d’argilla, invece rende, produce frutta e lo fa da secoli. Santadi, una cantina sociale sui generis, ha ancora qualche ettaro di alberelli a piede franco e li utilizza per bene.

Il Terre Brune è certamente uno dei pochi vini sardi che si è “affermato”, riconosciuto come rosso di razza e di stazza, le ragioni sono tante, spesse e variegate. Tra queste: la qualità, ineccepibile, costantemente replicata (in senso buono) .

Il rosso è già granato, luminoso di vita sommersa. Bel colore, di sostanza elegante e persuasiva, un rosso dai toni importanti, poco da aggiungere. Il naso ha una bella caratterizzazione mediterranea, macchia evoluta, poco balsamica, scura. La botte ha irrobustito le trame legnose di un vitigno già di per sè opulento, addomesticandone il naso, ingentilito di note dolciastre comunque profumate d’Isola, non del tutto stonate. Spicca, sul finale, un frutto rosso maturo, profumato di cannella, sorprendente  soprattutto per un apostrofo deciso e severo.

Il sorso è certamente spesso, importante, compatto. Le note di macchia tornano vigorose, scaldano il palato, esaltano un tannino sottile ma centrato, piacevole, elegante. Un bicchiere severo, poco conforme all’esplosiva solarità del Sulcis, da affrontare con uno spirito più sabaudo che insulare.

Voto_7.9