Archivi tag: fabio d’uffizi

Le parole sono appese, come stracci

Per il sangue che hai perso, il vino pareggia – E. De Luca, Il giorno prima della felicità

Scrivere è un’esigenza, un’urgenza. Lo fai perché senti che lo devi fare. Chi dice “lo faccio solo per me stesso”, mente: non solo a se stesso.

Chiaro, guardare in faccia le proprie parole ha potere lenitivo, curativo, positivo. Comunque. È uno strappo, è uno scatto bruciante, è un freno di emergenza che sferraglia, è una voglia di raccontare eppure di tacere. Scrivere è un debito, un dovere con te stesso. Vuoi saldare, ma tardi, ripieghi, dilazioni. E il tempo diventa scusa, rimandare diventa abitudine. E poi non paghi più e gli interessi si sono fatti grossi. E c’è la Crisi.

Se scrivi lo fai per dire, per parlare, per provocare nell’altro un pensiero, una censura, una scintilla. Almeno una smorfia.

Un amico che disegnava appunti golosi, mi diceva “fermati finché sei in tempo, oppure non fermarti più”. Credo di essere in ritardo, in clamoroso ritardo per potermi fermare, l’istinto continua a battere i tasti, vocale e consonante, parole e assonanze, figure contorte o semplici, che aspettano solo di essere eseguite, che appaiono d’improvviso al posto del foglio bianco, dopo il cursore, quello che lampeggia, ansimante, impaziente.

Poi pensi alla fortuna che hai, che qualche volta riesci a raccontare le fatiche di chi fa il vino, magari fai interessare altre 10 gole ai tuoi stessi sorsi, e che magari la pensano come te, e sono felici, e sei felice.

Ma spesso, ormai troppo spesso, i pensieri si sporcano, le bozze si infittiscono, i racconti si interrompono nel mezzo, non finisci mai semplicemente per dover ricominciare. Sempre.

E le parole restano lassù, appese. Come stracci.

credits morillo

Dop Sangiovese di Romagna Sup. – Castrum Castrocari – Marta Valpiani 2009

Elisa Mazzavillani scrive in maniera risoluta e schietta, come piace a me. La prima volta del suo Superiore vuole condividerla con la rete, con alcuni assaggiatori seriali, virali. Un approccio più che corretto: campione di 2 bottiglie, una sola regola, la prima si assaggia entro maggio, l’altra entro la fine di quest’anno lungo e tremante.

Il Sangiovese di Elisa (e di Marta, la madre, si tratta di una cantina di sole donne) fa una lunga macerazione a freddo, ribolle nell’acciaio, poi riposa tra legni non nuovi per dei mesi. Il colore è di rubiconda trasparenza ma scuro al cuore. I segni della gioventù si fanno brillanti, lucenti e bordati di scarlatto.

Il naso è ancora una promessa, in termini quantitativi, di quello che sarà: un frutto rosso, anche scuro, forse incupito, poi tante viole odorose, umide e un sottile pizzicore pepato, ma di quello buono, chiaro. In bocca sorprende il tannino già piuttosto fine anche se ancora nella sua pienezza verdeggiante, l’acidità che sostiene appena sul filo un sorso succoso, caldo, completo. Ancora poco integrata invece la nota minerale, viva e molto interessante, ma che tende ad un apostrofo amarognolo fuori dal coro. Normalmente non mi fisso sulle temperature di servizio, ma è stato divertente tuffare la bottiglia nell’acqua fredda e godere di alcuni bicchieri rinfrescati, e allora il timone ha puntato dritto alla bevibilità più godereccia.

Un bicchiere piacevole che incuriosisce, e tanto, soprattutto in prospettiva breve, dove si assisterà ad una crescita quantitativa dei profumi, oppure ad una versione ancora più elegante nel sorso, coccolato da fruttosità più polpose. Chissà … Il vino è cosa viva, è un bambino che ha carattere e la strada da prendere, quella decisiva, se la sceglie da solo.

Discorsi concreti

Quando ho cominciato a bere, non lo ricordo con esattezza. Quando ho cominciato a capirci qualcosa di vino nemmeno, anche se ho il clamoroso sospetto che quel momento non arriverà mai. Quello che invece ho stampato molto bene nella memoria analogica e digitale è il momento esatto in cui ho realizzato cosa vuol dire avere passione per il proprio lavoro, la propria terra, il proprio vino. Quando Luca e Alessandro si parlavano, quando lo zolfo ed il rame diventavano quantità dialettiche più che fisiche, quando il Veneto e la Sardegna cercavano testardamente di incontrarsi facendo leva sulle differenze, quando ho visto una persona chiedere e l’altra ascoltare, pensare e rispondere. Quel momento non lo dimentico, quel momento è concreto.

Igt Toscana – Tinnari – Az. Agricola Il Giardino 2010

Sergio Falzari è un ragazzo al quale devi prestare da subito la tua attenzione. E non per ragioni di fascino mistico o magico magnetismo: il motivo è che Sergio sa ascoltare, sempre e tutti. Spiega i suoi vini, sì, ma è palpabile il desiderio di scavalcare le sue parole per accogliere quelle di chi ha di fronte. Vuole sapere, percepire dove e come migliorare, dando per scontato il se. L’ho conosciuto al ViViT, semivicino di banco. Mi ha dato una delle sue bottiglie da assaggiare, quella che mi aveva incuriosito tanto: trebbiano toscano in purezza, scelta non semplice da incontrare, tutto rigorosamente bio.

Il terreno è quello di Vinci, terrazze di olivi e vigneti. Il vino fa solo acciaio, una buona macerazione, neanche troppo estrema. Semplicemente, è un vino ben fatto, uno di quei vini che si fanno tanto in vigna e poco in cantina.

Paglia fitta, spessa, un giallo carico colora il vetro. Belli i profumi, freschi e vivi, di glicine e pesca, di piccole complicazioni seducenti, tratti terrosi ancora poco educati ma certamente affascinanti. Un naso senza complessità cervellotiche, ma personale e schietto e che, con lo scaldarsi del bicchiere, si apre eccome, anche in potenza, pur mantenendo quel tratto spesso e profondo, una vinosità profumata.

Il sorso è tremendamente bevibile se pur corpacciuto come non ti aspetteresti. Bello l’agrappo acido, smorzato dalla tenerezza di un frutto giallo che diventerà senz’altro più dolce con il passare del tempo. Un vino potenziale, già molto interessante, ma che Sergio saprà far crescere, ascoltando i consigli altrui ma, soprattutto, le proprie idee.

Voto_7.4

 

L’abito, il monaco e l’Uomo Vivo

kungfupanda.wikia.com

Si dice che l’abito non faccia il monaco. Può essere.

Capisco poco di abiti, figuriamoci di monaci, ed è per questa e per altre millemila (cit.) ragioni che ho chiesto al mio più francescano, paziente, dimagrito e geniale amico Carlo (aka cafedo84) di cucire un abito nuovo di pacca per l’Uomo Vivo.

Sono sinceramente soddisfatto del completo confezionato al costo di qualche birra emiliana e generosa buona volontà, perché fatto di trama spessa, concreta, nessun bastone di cristallo né gardenia nell’occhiello, ma di taglio semplice, spero efficace.

Come le mie parole.