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Eruzioni sintattiche di fine estate (ovvero della pericolosa dermatite intellettualoide)

 

Sono giorni nei quali ascolto tanto e scrivo poco, leggo intrecci verbali, polverizzare bytes. Amici, persone che parlano con naturalità di naturale, di agricoltura, di vino, di cucine stellate, di mercato, di futuro. Di tutto. Parlano ma non si ascoltano. A me così pare. Ma, mi chiedo e mi sono chiesto, c’è in questa terra, in quest’afa afosa, in questo paese scoraggiato, spento, viziato, imbolsito e affamato, ancora qualcuno che ascolta le parole altrui? Per poi, magari, anche cercare di capirle, di comprenderle?

Domada che volge con preoccupante velocità alla retorica più semplice, lo so. Ma io sono fermo qua, sono incagliato, sono in secca. Voglio capire e lo voglio fare in fretta.

Io, voi, gli altri, tutti, ci ascoltiamo vicendevolmente? Sono certo che ognuno di noi ascolta se stesso, e perlopiù si piace, si convince, è d’accordo con quasi tutto quello che si (riflessivo) dice.

Ma: le parole degli altri? Esatto, quelle che non ci piacciono, quelle che ci fanno inorridire, quelle che ci fanno riflettere ma che non vogliamo accettare, altrimenti poi … si deve riflettere. Le parole degli altri.

Perché il rischio, in fondo qualcosa più che un rischio, è quello di ascoltare esclusivamente le persone che usano le tue simili o, ancora peggio, identiche parole. Sentire quello che vuoi sentire: cosa c’è di più bello e grandioso? Ci combatto da una vita con l’egoismo intellettuale e intellettivo, con la chiusura, con i gruppi chiusi, con  l’associazionismo. Ma soprattutto combatto da una vita con chi non ascolta e non vuole ascoltare le parole degli altri. Con chi esclude, per appartenenza o per paura.

Da sempre, mi piace raccontare. Da quando, piccolissimo, mi raccontavo le storie, per giocare, per non essere solo, come tutti i figli unici sanno fare benissimo. Ero carabiniere e ladro, pilota e passeggero, rigorista e portiere. Da più grandicello, le storie, belle storie,  costruite con talento e perizia, le raccontavo agli altri: piccole e grandi bugie, per gioco, per esibizionismo adolescenziale, per un normale percorso di crescita. Ho imparato tanto, ma sempre e soltanto dalle persone che non credevano alle mie storie, perché le ascoltavano davvero e che, per questa ragione, mi esponevano alla responsabilità della verità, invece di fare spallucce e ridere di me appena svoltato l’angolo. Da queste persone, antipatiche, dure, dirette e corrette, ho imparato che la trasparenza è inevitabile, è naturale. E così, da adulto, ho imparato non solo a raccontare ma a vivere la realtà in un solo modo, con pochi filtri inerti e pochi fronzoli: scelta complicata, che mi è costata tanto e tanto credo mi costerà ancora. Ma è l’unico modo che so e che ho di raccontare. E vivere.

Così, anche oggi, anche ora, mi piace raccontare. Però. Quante volte le mie parole vengono ascoltate? E, esercizio ancora più funanbolico, capite? Per chi racconto? Per quale ragione, se poi non vengo ascoltato o compreso?

Sono fermo qua, sono incagliato, sono in secca. Voglio capire e lo voglio fare in fretta.