Archivi categoria: sardegna

L’importanza di chiamarsi vino (e basta)

homer_disperato

Essere nominati significa già inevitabilmente essere dominati. (Marco Mancassola)

Naturale, artigianale, simbiotico, biologico, biodinamico, autentico, vero, biotico (!!!), indipendente, etico, libero, tradizionale ….
Questo tentativo esasperato di nominare e aggettivizzare il vino è noioso, inutile, fragile e pure pericoloso. Oltre ad avere ampiamente rotto i coglioni.

Noi italiani amiamo da sempre la vaghezza, disegniamo confini laschi, duttili, elastici. Ci piace il grigio, ci piacciono le sfumature, le trasparenze, le morbidezze, la risacca. Ci piace andare avanti e poi tornare indietro, ci piacciono le inversioni a U, apriamo mille porte e non ne chiudiamo nessuna, ci piace lo scudo crociato dietro al quale proteggerci, insomma … perchè vogliamo essere precisi, teutonici, risolutivi, categorici e così fottutamente espliciti?
Perchè il vino va espresso, incasellato, definito, segmentato, stabilito, chiamato e descritto?
Perché? Perché questa ossessiva ricerca dell’aggettivo perfetto? Chi lo vuole, chi lo cerca, chi lo ha chiesto?
Il prosciutto al massimo può essere salato o deve essere anche libero? L’impianto siderurgico può essere imponente ma deve essere certamente etico? La devitalizzazione del terzo molare è costosa ma si deve pretendere che sia artigianale?
Il vino è vino, bisogna saper fare agricoltura, lavorare con pulizia, decidere come accompagnare l’uva in cantina, avere culo, pensarla bene e sperare che una volta imbottigliato e stappato, piaccia. E che qualcuno, riconoscendo in quel liquido del buono (nella accezione più ampia che si possa mai concepire), lo compri e te lo paghi.

Discalimer: il seguente dialogo è frutto di pura fantasia (…) ed è ambientato tra i banchi di una delle tante fiere immaginarie di settore, non è mai accaduto (…) e qualsiasi riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale (…)
“Che vino è?” “Cannonau” ” Ma è naturale?” “Non è sintetico” “Si vabbè, ok. Ma è un vino davvero naturale?” “Dipende che cosa intendi per naturale” “Eh, questo dovresti dirmelo tu!” “Ma me lo hai chiesto tu se è naturale, io ti ho detto che è Cannonau, Cannonau 100%” “Si ma dovrai pur definirlo il vino che mi stai facendo bere, altrimenti …” “Altrimenti che?” “Altrimenti mi viene da pensare che …” “Ok, ti interrompo. Questo è un Cannonau propedeutico.” “Ah, bello, interessante come concetto. Ma, esattamente, in che senso?” “Nel senso che ti prepara” “Chiaro, intendi ad un approccio agricolo che …” “No, semplicemente ad essere mandato a fare in culo se non finisci il bicchiere e non fai passare gli altri che aspettano”. Seguono risate a denti stretti degli astanti tra l’incredulità e lo sconcerto da una parte e una solida seppur dolorosa soddisfazione dall’altra.

Ma il cielo è (davvero) sempre più blu

balai

“Chi trova scontato, chi come ha trovato” (R.G.)

Agosto, pausa. Per me la pausa è scrivere, è ritrovare quel rapporto di Amore sintattico con la tastiera. Ognuno ha le sue pigre perversioni, questa è la mia.

Bello questo tempo, con le stelle sparate e la luna gigante. Bello sentire, nuovamente presente e costante, il sottofondo ondoso, questo mediterraneo padre, dentro la mia Isola grande, grandissima. Le cose, viste da qua, sono sempre diverse. Ne ho fatto una ragione di vita quella di raccontare la condizione di isolano, di sardo: ho annoiato tutti, anche gli amici più pazienti. Eppure non mi stanco mai di fare da interprete, di trovare il modo di porre all’attenzione di tutti come sia diverso il mondo visto da qua.

Agosto, pausa. Vuol dire musica, che per me è rifugio, non è quasi mai novità. La novità passa, la musica resta. Ascoltare Gaetano a volume intenso e basso e pensare a come nulla sia scontato, neanche questo cielo, neanche queste parole.

Agosto, pausa. C’è da costruire un cielo sempre più blu.

L’Uomo di latta

Ad Emma Peel

Sempre il solito problema: un misterioso e inatteso pudore mi impedisce di scrivere di cose quotidiane, di quello che accade, di episodi normali di lavoro e vita, cose comuni, semplici. La quotidianità. Ma lo so che per altri, per molti, quelle cose, quelle quotidianità vogliono essere lette come racconti, come storie, come incanti.
Rimango schiacciato allora, tra un “cazzo scrivi, cosa c’è da scrivere, è solo lavoro” ed un “ma perché non scrivi più? Perché queste cose non le racconti? Devi raccontarle!”.

Vabbè.

Ma ieri. Ieri ho sentito il bisogno di correre in macchina per prendere la Canon più mal ridotta dell’Isola e scattare. Ieri sembrava di stare nel regno di Oz, ieri ho lavorato insieme all’Uomo di latta.

Perciò fanculo al pudore, fanculo ai dubbi e alle remore e fanculo pure all’Uomo di latta che intanto lo so, lo so benissimo che queste parole non vorrà leggerle e che si incazzerà. Anche se poi gli piaceranno.
“C’è da dare il 500K. Vieni su alle 13”. Ogni fottuto (ex)enogeek come me, a sentire queste parole, si scioglie in ebrezza e felicità. La terra, i preparati, la vigna. Poi sono giornate di sole alto e forte qua sull’Isola. Bello.
Si arriva, si scioglie, si scuote in vortice l’acqua che si colora di scuro. E poi le latte da indossare, quelle di rame.
Badde Nigolosu non conosce la pianura. Semplicemente non esiste. È sempre una salita, oppure è comunque sempre una discesa. Dipende.
Non c’è niente di romantico, di magico, di esoterico, di fantasmagorico. In quello che ho visto non c’è estremismo, polemica, facile dialettica, non ci sono camicie a quadri, non ci sono definizioni, convenzioni o categorie.
C’è solo lavoro fatto con una bellezza faticosa e profonda, quasi estetica se possibile.
Armeggiare quegli affari di rame è una maledizione: cammini e sprofondi nella terra lavorata e tenera, le cinghie, quando parti, ti segnano le spalle, con la mano destra devi muovere sempre la lancia, destra sinistra destra sinistra, che devi toccare due filari per parte, e con la mano sinistra devi andare sempre su e giù, per pompare quel maledetto preparato, per non fermarti. Perché se ti fermi è peggio.
Osservo l’Uomo di latta andare su e giù per la vallata veloce come un cinghiale. Intuisco la sua posizione solo dagli sbuffi che si alzano tra i filari. Luccica di fatica.
Tocca a me. Mi ero limitato, fino a quel punto, a preparare gli zaini, a seguire la dinamizzazione, ad osservare in un acciacco di ammirazione e preoccupazione, il lavoro altrui. Tocca a me, cazzo. Metto lo zaino e comincio. Il pensiero è andato veloce a tutte le cose che avevo scritto, a noi che sentiamo “il geranio vecchio” stando 12 minuti con il naso nel bicchiere, ai terziari, secondari e primari, alle puzze che dici “certo che un po’ più di pulizia nel bicchiere, diamine”, all’esame dato con Maietta, alle serate passate a decidere se è “paglierino riflessi verdi o verdastri?” o se il legno così tostato “non ci piace”, alle superficiali rinunce all’acquisto perché un vino “no, dai, non può costare così”. Sprofondavo nelle zolle, arrancavo tra i tralci, non sentivo più il braccio sinistro e pensavo: “non ho davvero capito un cazzo io. Sono uno stronzo”.
Alla fine della prima salita, rivalutavo enormemente la potenza della tecnologia, la grandezza del progresso, l’uomo come entità intelligente e superiore.  Al secondo filare sospiravo, o meglio rantolavo: “ah, l’agronomia, che materia concreta e affascinante”. Al terzo ingresso vaneggiavo inneggiando alla chimica, alla validità di ogni trattamento sistemico e pensavo a come fosse fottutamente bello diserbare come se non ci fosse un domani. Visioni cottarelliane mi apparivano in fondo al filare.
La tanica è finita. L’Uomo di latta mi guarda come si guardano le carcasse sull’asfalto: un mix emotivo di tenerezza, pietà, disgusto e “peggio per te che hai attraversato la strada di notte, idiota di un animale”. Splatter, puro sguardo splatter.
Le vigne aspettano, il tempo e gli ettari scorrono. Il sole non è più alto. Fa buio.
“Continua a preparare, facciamo l’ultima” “Ma è buio!” “Si vede benissimo. C’è la luna piena, è una figata.”
E così osservo scomparire nel buio, tra i filari, l’Uomo di latta. Luccica di fatica.

Buone feste. A tutti.

La merenda

Troppo cerebrale per capire che si può star bene senza complicare il pane (s.b.)

Questa cosa che accade è semplice, si potrebbe chiamare vita. Vabbè, facile scrivere vita, sviolinare di cieli azzurri, mare, ritorni, odori, sogni che diventano realtà, ecc, ecc.

Invece no.

Invece è tutto molto di più: è la grandezza dei dubbi e delle fatiche, la profonda paura di sentirsi costantemente piccoli, insicuri, inadatti. E poi la responsabilità verso Lei, verso gli altri, la novità, pensieri che guardano il mare mentre vorrebbero solo sotterrarsi sotto la sabbia, l’esercizio costante dell’umiltà, non quella predicata, ma quella obbligata, giusta, necessaria. Dentro tutto questo le cose scorrono, accese, colorate, limpide. Così capita di chiedere a quella persona che ti ha voluto dare un’opportunità, che ti ha voluto a fianco per condividere più di un semplice lavoro, se mai avesse pensato di fare quello che sa fare da altre parti, in altri luoghi, con altre piante. E ricevi per risposta solamente uno scarso e immediato sorriso e, dopo pochi giorni, una visita improvvisa. E una bottiglia.

“Cos’è?” “Cagnulari” “L’hai fatto tu?” “Porta due bicchieri” “Allora facciamo merenda”

Taglio il miglior pecorino che ho in casa, un fiore sardo di Gavoi, stagionato tanto, umido, potentissimo, porto un carasau da battaglia piuttosto afflitto e apro la confettura di Pompia (fatta da Angela Coronas, di Siniscola, bravissima). Si stappa questa boccia di Virdis, un Cagnulari di Usini in purezza, anno 2006, cemento e bottiglia. Una emozione, grande, come non ne sentivo da anni. Uno stordimento dolcissimo, uno schiaffo rumoroso fatto di terra e macchia, una grandezza nitida, un’eleganza sfacciata. Gli occhi brillano. Un Cagnulari come lo ricordavo da bambino, tra i piatti profumati di alloro che la domenica mattina ascoltavo a Uri da Mattia, la vecchia amica di una vita di mia nonna. Un Cagnulari denso, dolce, caldo, acido, un Cagnulari che è un grande vino. Bottiglia unica che ancora di più, se possibile, mi convince di quanto sia riduttivo, sintetico, inutile descrivere il vino con profumi, odori, ricordanze, sentori. Questo Cagnulari non posso permettermi di ricrearlo con le parole, voglio solo raccontare che l’ho bevuto. Col pecorino, con la confettura di Pompia che sapeva di limone, menta e salvia, con il carasau flaccido e con un sorriso che ancora non si leva.

Un privilegio, un amico che sa fare il vino, una merenda. Vabbè, facile scrivere vita.

Semplice è la vita

Tamuli - Macomer

C’è il sole, e poi le nuvole. Giganti e bianche. Galleggiano, in questo cielo che sembra più vicino, un cielo d’Isola.

La pioggia intensa porta via quella sensazione, quella specie di speranza che va trasformandosi in sottile, meravigliosa, malinconica certezza: vivrò sempre sotto il sole, magari mi verranno i solchi sulla faccia chè gli alberi sono bassi e piegati e l’ombra me la concederanno solo le nuvole. Giganti e bianche.

Sorrido.

Solo pochi mesi fa queste divagazioni, questi pensieri sconci, m’avrebbero scosso dal tepore artificioso e padano del mio letto. Paciosamente avrei “girato gallone” e mi sarei riaddormentato, soddisfatto comunque di essermi confuso tra il ricordo ed il sogno di quel cielo e di quella pioggia. Un inganno consapevole.

Invece sono, siamo qui. È passata una stagione e la vita è cambiata.

La vita è semplice.

Cambiare, scegliere, mettersi addosso la voglia di ripartire, di ricominciare. C’è una bellezza facile e potente nel cambiamento, nel re-inizio. Un rilancio, una curva, il sapere dell’esistenza di una strada intuendone soltanto il rettilineo.

C’è tanta bellezza nel cambiamento, c’è bellezza nell’inganno che si svela in realtà, c’è la bellezza delle nuove bruttezze, c’è la bellezza della fatica e delle caviglie gonfie, c’è la bellezza di quello che non conosci e che ti meraviglia, c’è la bellezza di vedere ciò che era come non è più.

Ed è affascinante stupirsi davanti alle reminiscenze spontanee, a parole che hai letto, che hai da sempre sognato di poter scrivere tu ma senza saperne per davvero il motivo: “siediti al sole, abdica e sii re di te stesso” leggevo, annotavo, riscrivevo questo verso di Pessoa con una misurata ossessione, mi piaceva il senso, la cadenza italiota della traduzione, la ritmica dell’inquietudine, la scelta classicistica del vocabolario.

Oggi, dentro a questo cielo, ne ho capito anche il significato, che c’è il sole, e poi le nuvole. Giganti e bianche.