Doc Alghero – Marchese di Villamarina – Sella&Mosca 2005

Ci siamo, è la resa dei conti: 3 bicchieri Gambero Rosso, 5 bottigliette dell’Espresso, 91/100 da Parker, belle cose anche dalla Veronelli.

Con Sella&Mosca ho un rapporto piuttosto tiepido, non amo particolarmente i vini dell’azienda algherese, pur ammirandone il piglio imprenditoriale, la capacità di fare quantità qualitativa un poco sopra la media, l’ospitalità di cantina bella, figosa, accogliente e di charme. Li trovo sempre vini puliti, uguali, rigorosi, piatti. Due eccezioni: il torbato che della sua assoluta semplicità fa tesoro e l’Anghelu Ruju, nuragico ed epico rosso liquoroso.

E allora, davanti a questo bottiglione di Cabernet Sauvignon donato a cui di certo non si guarda in bocca, i pregiudizi cominciano a farsi esagerati, considerati gli unanimi plausi della critica sopra riportati, e rendono l’assaggio un poco teso. Lo ammetto.

Il colore è interessante, un carnoso rosso scuro, appena lucente ai bordi, l’unghia di smalto costoso e curato. Scala elegantissimo il vetro, senza sudare eccessivamente, compattandosi poi in archi lunghi, ampi, distesi. Il naso è potente, si ferma poco prima della soglia balsamica: il peperone è stato grigliato velocemente, qualche secondo per parte, che la buccia comincia appena ad arricciarsi. Poi spezie, sali e tabacchi in quantità esagerate, profumi ed essenze, unguenti di bellezza, parrebbe la perfetta colonna olfattiva per uno spot della Compagnia delle Indie. Un bicchiere senz’altro profumato, forse troppo profumato. Diventa semplice esclamare “epperò!” davanti a tutto questo volume, mai maleducato per la verità. La frutta c’è, si nasconde intimidita dietro questo sipario pesante e spesso, ed è rossa, spalmabile, poco pungente.

In bocca la morbidezza asfalta i tannini che, come ho letto nelle recenze di quelli più bravi di me, “si fanno fini“. Più che fini, direi che si genuflettono, sfiniti e piegati dalla untuosa concentrazione, fino a ricomparire, sofferenti, in deglutizione, come a ricordare la loro operaia ed onorevole esistenza. Il sorso è comunque pulitissimo, se vogliamo piacevole, leggermente appesantito dalla mancanza di un brivido fresco che ne avrebbe raddrizzato l’equilibrio, il frutto torna, finalmente accompagnato da quel piccolo spigolo che serve per dire: cabernet.

Ora, di vino non capisco molto, quel poco che credo di sapere riguarda i vini dell’Isola. Allora, con nessun tono polemico (???)  mi chiedo: perchè? Perché Cabernet in purezza?  Perché bevo un vino sardo che, nonostante ciò che leggo sulle “guide”, non ha nulla della Sardegna, non un frutto, non un cisto, non una roccia? Perché, in una terra dove il legno è sempre stato un incidente di vinificazione, se ne deve abusare? Perché premiare questa scelta?

Perché?

Voto_s.v.

27 pensieri su “Doc Alghero – Marchese di Villamarina – Sella&Mosca 2005”

  1. Ciao Fabio,
    non avevo visto l’uscita del post perchè non avevo aggiornato i feed.
    Bello, sincero, adesso chi ama la semplificazione dirà che cavalchi l’onda degli anti barriques e che odi gli alloctoni.
    Semplificano appunto, perchè io capisco ciò che dici nel profondo ed è l’assoluta irrazionalità di vini snaturati da vinificazioni incomprensibili che mortificano le uve e il loro potenziale, ho assaggiato due Sangiovese di Romagna in cui intuivo un frutto, una polpa ma erano devastati dal legno e dai sentori quasi resinosi e di vin brulè. E i tannini quì erano così corti che il vino era amaro, entrambe imbevibili, buttati nel lavandino.
    Ieri invece con Vittorio abbiamo aperto un Merlot (io sono convinto che il problema risiede di più nelle vinificazioni che nella sterile lotta fra autoctoni e alloctoni) Friulano, la bottiglia è finita in un amen e sembrava di bere un cru di St Emilion, eleganza, spina acida, leggerissima acetica che spingeva funghi, peperone e tabasco lieve pepato.
    Questo signore vinifica in cemento poi affina in barrique vecchissime che microssigenano solo e lasciano il corredo aromatico dell’uva esprimersi come vuole.

    1. luis, cogli nel segno. in realtà la contrapposizione alloctoni/autoctoni io la sento ancora viva, credo più viva di te. si, è un “problema” anche di vinificazione, si sceglie una strada, magari lontana dalla tradizione, ma vabbè … ben venga, al massimo può succedere che dica: “non sono d’accordo e non mi piace”. Finita lì. a me piace, generalmente, chi osa.
      quello che non mi va giù, per nulla, è la scelta di utilizzare il territorio come specchietto, perchè credimi, alla cieca, è difficilissimo individuare il terroir algherese tra le trame di quel cabernet, che è pure un buon bicchiere, ma non è sardo, non ha nulla di interessante, di personale, di insulare, qualcosa che ti faccia dire:” toh, ecco com’è il cabernet sauvignon che cresce tra le arenarie, baciate dal Signore, della Nurra algherese”. ma perchè??

  2. “Chi ama la semplificazione dirà che cavalchi l’onda degli anti barriques e che odi gli alloctoni”, allora chi ama le complicazioni probabilmente dirà che non è vero che cavalchi l’onda degli anti barriques e che odi gli alloctoni perché è una volgare semplificazione. Ma a quel punto altri sosterranno che dire che cavalcare l’onda degli anti barriques ed odiare gli alloctoni è una semplificazione per complicarsi la vita.
    Insomma, non se ne esce.

    O forse volevi solo dire che non t’è piaciuto un granché 🙂

    Fil.

    1. ma fil, ma il giorno del tuo genetliaco hai tempo da perdere con un cabernet di Sella&Mosca? 😉
      io non so odiare, purtroppo, e non so neppure cavalcare un’onda. sono sardo, mica californiano ….
      ps: l’hai capita? l’hai capita? 🙂 🙂

    2. Filippo,
      mi spiace contraddirti nel giorno del tuo genetliaco ma ridurre tutto a mi piace o non mi piace è riduttivo.
      Il piacere è una costola della cultura, la cultura non vive di sole papille e sensi ancestrali ma di costruzioni di senso legate a molti fattori per cui trovo sia lecito, se non doveroso, inglobare le tecniche e le scelte agronomiche nella definizione del gusto (che è comunque, malgrado tutto, soggettivo).
      Esautorare l’aspetto culturale e antropologico, a mio avviso, non può che far male al mondo del vino proiettandolo verso una concezione meramente commerciale e a-topica.
      Mentre chi lavora con i vegetali deve fare i conti con i ritmi e le ingiurie della natura e la corsa verso il bello e il buono che sono in perenne e sconsiderata mutazione è una corsa verso il nulla.

      1. La concezione meramemte commerciale e a-topica di un certo mondo del vino ha creato molti danni in questi ultimi anni: a chi produce vino, a chi lo beve, alla terra che ne sopporta i soprusi, al vino stesso.
        Di pari passo negli ultimi tempi incontro vignaioli che hanno preso coscienza di questo e che producono vini davvero degni di questo nome, sono i vini che cerco, che bevo e di cui parlo, il resto è solo fuffa e non mi interessa (più).

      2. ! would add to your post, jim, that I don't believe that simply going to a gun show is proof of racism or hatred of liberals.I will say that a fisherman selects the proper bait for the fish he's out to catch. I am more fishing fetishist than gun fetishist, and can speak with some authority threr.Howevee, pity the poor fisherman who goes out fishing for nice bass and finds himself with a big hungry toothy shark hanging off his arm.bb

      3. Seems reminiscent of the buildup of large scale settlements in the Balkan and Ukrainian Neolithics, proto-civilizations contemporary with those in the Middle East through to India, only to leave no trace, perhaps due to a collision with a more nomadic way of life that was more fit (which seems parallel), a way of life which would have been near impossible in the domestic animal free Americas.Of course, the above proto-civilizations would be seem to be due to migration, not cultural diffusion (unlike the Iroquois?).

  3. In effetti tutto parte dalla gnoseologia del vino. Credo che il vino in quanto tale poco abbia a che vedere con i processi cognitivi mitopoietici ed anzi patisca un difetto di pragmatismo che tuttavia rischia di ripiegare su schemi tautologici. Hai ragione Fracchia, il vino merita una considerazione che va ben oltre il buono o il non buono, il giusto o l’ingiusto. E’ richiesto un grado di dedizione superiore, una sorta di approfondimento ontologico sul reale impatto emozionale che il vino può avere sull’io. Restringendo al vero, al percepito, l’essenza appare impalpabile e transeunte, quasi a sottolineare il limite fisico del nostro scialbo tentativo di autenticità.

    Con impalpabile stima.

    Fil.

      1. E quale? magari spiegatelo anche a me.
        Filippo io non ho fatto della filosofia spicciola, dell’esibizione di cultura vacua e fuori luogo, ho cercato di spiegare un punto di vista, tu mi pare che abbia “fatto il verso” a quello che ho detto io.

        1. Dai Luigi, ero allegro e spensierato ieri, stavo solo scherzando, avevo voglia di giocare con le parole e con te. Sul tema della cultura siamo tutti d’accordo è solo che ogni tanto ci sta anche bersi un bicchiere senza pensare, senza analizzare, senza doverne trarre altro che gioia.

          Ciao, Fil.

  4. Visto che non sono bravo con le parole e non posso tener testa a questi due pozzi di cultura ( senza offesa naturalmente ), tornando al tema, hai avuto la conferma che il cabernet sauvignon non viene bene dappertutto.
    A parte il legame al territorio che non hai trovato, anche la vinificazione vuole la sua parte, sempre nel rispetto delle uve.
    Se ricordi, il D’Alceo è la controprova evidente che è possibile ottenere un prodotto di eccellenza e profondamente territoriale anche con uve alloctone, così come ha sperimentato Luigi con il suo merlot.
    Esempi se ne trovano tanti, in un senso e nell’altro.
    Ho trovato dei Chianti Classico volutamente prodotti per il gusto americano,
    in cui il Sangiovese era mortificato dall’uso smisurato e criminale di barriques.
    Io non colpevolizzerei ne le barriques, ne gli alloctoni, a patto che si usino nel modo corretto e nel rispetto delle uve e del prodotto finale.
    Per concludere il mio intervento, devo dire che in Italia la barrique è spesso ancora un oggetto misterioso; molti, troppi, le usano senza aver ancora capito bene a cosa servono.
    Allora ci ritroviamo nel bicchiere dei vinacci, che potrebbero essere fatti con chissà quale uva e provenire da chissà quale regione; sono tutti uguali.
    Saluti.

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